Giovanni Buzi, San Sebastiano (1987)

Giovanni Buzi: La Spranga

Sono una spranga.
Una spranga d’acciaio.
Cilindrica, dura, pesante.
Tutta d’un pezzo.
Miliardi di molecole strette l’una all’altra.
Difficilmente, molto difficilmente separabili.
La coesione è la mia forza.
Sono materia pensante, capace di provare dolore e piacere. Dolore quando sono inattiva. Piacere, in un solo caso: quando sto nelle mani del mio unico, solo padrone. Prima che lui mi raccogliesse, ero un pezzo di metallo gettato nel fango. Inutilizzabile. Inservibile.
Ma riprendiamo la storia dall’inizio. Sono stata fabbricata insieme a tante altre spranghe in un’acciaieria. Sono nata tra zampilli di fuoco liquido, temperature impressionanti e un frastuono infernale. Fredda, lucida e brillante sono stata trasportata in un cantiere alla periferia di Roma. Costruivano un intero quartiere. Mi vedo sul camion, stretta fra tante altre spranghe uguali a me. Felice. Come ricordo quella mattina!
Eravamo in pieno febbraio, l’alba accendeva di viola il cielo, un freddo della madonna. Che goduria sentire la terra gelida quando sdreeng! ci hanno scaraventate giù. Eravamo tutte barre cilindriche nuove di zecca, orgogliose d’essere utili, fiere di partecipare a un unico, grandioso progetto. Ero ancora frastornata dal precipitare, cozzare, risuonare dell’una contro l’altra... quando un tipo della vostra specie, un umano, s’è avvicinato e ha cominciato a guardarci, manipolarci. Al mio turno, m’ha soppesata, girata e rigirata, infine m’ha gettata dicendo:
– Questa non va bene, ha un difetto.
Un altro tipo m’ha buttata come un pezzo di merda su un mucchio d’immondizia. Avrei voluto esplodere come una bomba atomica!
Un difetto, io?!
E che difetto?...
Là, in cima al mucchio di lattine accartocciate, bottiglie di plastica vuote e rifiuti, avrei voluto scoppiare a ridere. Per fortuna che l’acciaio non può ridere, o meglio: per fortuna che il ridere dell’acciaio, voi esseri umani, non potete sentirlo.
Spazzatura tra spazzatura sono rimasta per molto, troppo tempo. Un giorno mani bianche, forti m’hanno tolto da quel marciume. Le mani del mio padrone. È stato quel contatto deciso, virile, (pietoso?) che m’ha fatto capire il vero significato della parola  piacere. Piacere lui me ne ha dato e continua a darmelo. Io contraccambio quando posso, come posso.

***

Il mio padrone ha 17 anni. Si chiama Mauro. È un ragazzo alto e robusto. La vita gli circola nelle vene con la violenza dell’età e della buona salute; che Dio me lo conservi a lungo! Fa sport: piscina e karatè da quando ha dieci anni, da poco la boxe. È una forza della natura; al solo vederlo, io spranga che sono, vibro!
Mi capita spesso di pensare alle sue mani... m’afferrano, m’accarezzano, mi danno forza. Lo so, il mio padrone gode quando mi tiene in mano e io godo del suo godere. Godo del suo odore, della sua energia, del suo sudore, dei suoi occhi neri, di tutto il suo essere vivo, maschio. Sono una spranga, di genere femminile secondo la vostra grammatica, ma non ho nessuna reticenza a dire che sono allergica a tutto ciò che tocca, anche da lontano, all’universo femminile. Sono allergica alla sola parola: femmina!
Soprattutto a quelle della vostra specie. Al solo pensare a una donna, ragazza, vecchia o bambina come voi le chiamate, ogni mia molecola urla di ribrezzo, s’agita, impazza. Solo mi sfiorasse uno di quegl’esseri, pur d’acciaio, mi coprirei di ruggine! Per fortuna, in un angolo del garage del mio padrone, senza né madri, zie, cugine, sorelle tra i coglioni, non corro questo rischio. Resto ore, giorni, a volte mesi, dimenticata a terra. Non me ne lamento. Ogni minuto, ogni istante che passa è per me un godimento. A ogni momento il mio padrone potrebbe sollevare d’un sol colpo la saracinesca.
Non vivo che per questo.
E la mia attesa non è vana. Viene nel garage anche più volte al giorno; è qui che tiene la sua moto. Non fa caso a me, il più delle volte non mi guarda nemmeno. Che importanza?... Io, buttata a terra, godo già della sua immagine riflessa sul mio corpo. La moto è bellissima, di grossa cilindrata, argento e nera. Gliel’ha comprata il padre un anno fa. I primi tempi Mauro, il mio padrone, scendeva ad ammirarla almeno quattro volte al giorno. La lustrava, lucidava da cima a fondo, poi la metteva in moto e la faceva ruggire come una belva. Non sono gelosa, no. Né della moto e ancor meno della ragazze che gli ronzano intorno. Perché dovrei? Le ragazze gli servono per scopare, la moto per spostarsi. Io per cose molto più importanti.

***

Chi potrà cancellare il ricordo di quella notte? La notte in cui per la prima volta lui m’ha manipolata come si deve. Da pezzo di metallo m’ha fatto sentire più potente della spada dell’Angelo dell’Apocalisse! Era passata da poco la mezzanotte, ero già appisolata quando sento uno sferragliare. La saracinesca s’alzò, s’accese la luce e lo vidi: jeans, giubbotto e scarponi di cuoio. Il suo sguardo duro, distratto è caduto su di me. Ho sentito un brivido. Ha abbassato la saracinesca e s’è diretto verso la moto. In mano aveva una bottiglia di whisky quasi vuota. S’è seduto su una cassa di metallo, ha preso un sorso. Ha acceso una sigaretta. Ha tirato una prima boccata. Ha seguito le volute di fumo, poi ha preso un’altra sorsata.
Spenta la sigaretta, la bottiglia era finita. Un calcio e l’ha schiantata contro il muro. S’è alzato. Faceva fatica a stare in equilibrio. Ha preso da una tasca una pillola bianca. Senza guardarla, l’ha inghiottita. I suoi occhi erano due stelle nere. S’è avvicinato alla moto. Ha cominciato ad accarezzarla. Accarezzarla lentamente con le sue mani bianche. La sella di pelle nera, il serbatoio argento, gonfio come il seno d’una donna. Le sue mani sono scese verso il motore, hanno seguito ogni piega, ogni curva dei tubi, dei pistoni cromati. S’è seduto a terra di fronte alla moto. Ha aperto le gambe, l’ha strette contro la ruota. Colto da un’improvvisa stanchezza, ha appoggiato la testa sul parafango nero. È rimasto con la guancia sull’immagine d’un teschio. Un teschio color argento con al posto degli occhi due stelle rosso fluorescente.
A cosa pensava?... Perché, pur amandolo più d’ogni altra cosa al mondo, non riesco a leggere nei sui pensieri?
Lentamente, dalla ruota è passato ad accarezzarsi le ginocchia, le cosce. S’è sbottonato i jeans. Ha messo una mano nelle mutande. L’ha lasciata per un po’ tranquilla. Poi ha cominciato a muoverla. Lenta, lenta. Ha tirato fuori il cazzo. Serpente addormentato, abbandonato sul palmo. L’ha accarezzato. Dolcemente. Ha sollevato il mento, l’ha poggiato sul parafango. I suoi occhi neri fissavano quelli rosso fluorescente del teschio. Ha abbassato il viso. Ha poggiato le labbra sui denti, le gengive scarnificate del teschio. Il suo arnese era rigido e la mano sempre più veloce. Ha schiuso le labbra. La lingua è passata sull’argento del teschio. Ha tolto la mano dal suo pugnale di carne che è restato eretto, duro. Lo so, il mio padrone l’adora, ma so anche che preferisce me, la sua spranga.
Sono io a dargli più piacere.
S’è alzato. Ha tolto il giubbotto di cuoio. Sulla T–shirt nera, un’aquila con tra gli artigli un serpente verde elettrico. S’è tolto gli scarponi, i jeans. Io, in un angolo come uno scarafaggio, godevo a vedere il suo corpo. Nudo, s’è messo sulla moto. L’ha accesa.
Ho sentito il piacere che provava a contatto con la pelle della sella. Io a terra, immobile, muta, gioivo del suo piacere. Chi l’ha detto che il metallo è insensibile? M’avessero sfiorato, avrei dato la scossa! Di profilo, vedevo il suo corpo muoversi lento. Eterno gettarsi del mare sulla sabbia. Un guizzo di muscoli lungo la schiena. Le natiche spingevano ritmiche. Gambe contro tubi e pistoni. Le mani afferravano, accarezzavano il serbatoio lucido.
Alzò il capo e, a bocca chiusa, soffocò un gemito di piacere.
Aprì poi la bocca e respirò. La mascella squadrata, la testa rasata. A momenti, i suoi occhi neri riflettono una trasparente innocenza.
Ogni mattina si rade con cura. Rito simbolico; non ha ancora la barba. Ma tra poco, lo so, perderà quel resto di dolcezza del viso. Le guance prenderanno una sfumatura acciaio, il mio colore. Saremo sempre più simili noi due, il padrone e la sua umile serva, la spranga.
Le sue cosce strinsero la moto. La schiena s’irrigidì. Lanciò un urlo e sparò quattro, cinque getti! Perché neanche una goccia è finita su di me? Come falciato da una raffica di mitra, è ricaduto sulla moto.
S’è poi rialzato, ha pulito la moto e s’è rivestito. Ero ben lontana dal pensare che lo spettacolo doveva ancora cominciare.

***

M’ha sollevato da terra. M’ha portato con sé sulla moto. A tutta velocità per le strade di Roma! L’aria tiepida della notte, i profumi dell’estate. Su un fianco della moto aveva saldato due ganci metallici; per me, la sua schiava. Sentivo il rombare del motore e il tepore della sua gamba. Lasciammo alle spalle il Colosseo e salimmo sul Colle Oppio. Accanto alle moto, i suoi amici l’aspettavano.
– Perché arrivi a quest’ora? – disse il Puma.
Il mio padrone frenò. Si tolse il casco.
– L’avete portate le spranghe?
– Eccole.
– E le pasticche?
– Pure quelle.
– Ho finito le mie.
Il Biondo, servizievole come sempre, prese una bustina di plastica dalla tasca del giubbotto di pelle.
– Che merda è? – disse il mio padrone.
– Roba buona, capo, non ti preoccupare.
– Voi l’avete presa?
Ercole, un tipo alto due metri, cominciò a ridere,
– E stavamo a aspetta’ te?
– Sta zitto.
Ercole fece silenzio. Sapeva farsi rispettare il mio padrone, bastava un’occhiata. Ingoiò una pasticca e disse:
– Andiamo.
– A spacca’ le vetrine dei negozi del centro? – disse il Boxer, un ragazzone che praticava il pugilato, le mani capaci di soffocare un bue.
Il mio padrone prese il pacchetto di sigarette. Ne accese una. Fatte due tirate, disse:
– C’è meglio.
– Sarebbe? – fece eco il Lupo, un ragazzo magro con gli occhi grigi.
– Stanotte – continuò il mio padrone passando la mano su di me – stanotte sangue.

***

Stretta tra il motore e la coscia del mio padrone, respiravo! Roma mi veniva incontro a flash di luci e palazzi, alberi e marmi. Rombare di motori, profumo di benzina e oleandri. A tutta velocità: via dei Fori Imperiali, piazza Venezia, via Nazionale, la Stazione Termini, piazza Vittorio. Lasciammo il centro. Andammo verso il mare. Lontano da quel marciume di statue e chiese, stemmi, fontane e fogne! Aria! Mare! Pineta! Strepito di vetrine, schiantarsi di vetri di macchine e segnali stradali; più d’una volta avevo gustato quel piacere. Stretta nelle mani del mio padrone, ero stata manganello, clava, folgore. Sotto ai miei colpi, la materia s’era ridotta a brandelli, schegge,  polvere! Quella notte, tra il motore e la sua gamba ero percorsa da una vibrazione nuova.
Sangue!
Come uno stormo di falchi affamati, volammo sulla strada che porta al mare. All’odore dei pini, il mio padrone rallentò, frenò. Si tolse il casco. Gli altri l’imitarono. Tutt’intorno silenzio e fresco. Lassù oltre i rami e gli aghi, un brulicare di stelle. Il mio padrone scese dalla moto e mi prese. Non avrei cambiato quel momento né col Paradiso né con l’Inferno.
– Voglio demolire – disse quasi tra sé Ercole afferrando la sua spranga.
– Cerchiamo una puttana, la squartiamo e poi gli spappoliamo il cranio – disse il Lupo, gli occhi fosforescenti.
– Calma – disse il mio padrone.
E gli altri si calmarono. Per qualche istante nessuno parlò. Dal silenzio della pineta emerse armonico il canto dei grilli.
– Allora – disse infine er Boxer – chi squartiamo, una puttana nera o un frocio bianco?
– E perché no, un frocio nero? – disse il mio padrone.
Risate sguaiate, sputi a terra. Non gli manca niente, nemmeno la parola al padrone mio!
– Hai ragione. Andiamo a trova’ un frocio nero! – s’eccitò il Puma.
– E dove lo trovi? – fece il Biondo.
– Di froci ce ne stanno di tutti i colori – ribatté il Boxer.
Il mio padrone mi teneva stretta in pugno, sentivo il brivido delle dita, un vibrare che non gli conoscevo. La pineta sembrava deserta. 
– Non si vede nessuno stasera – soffiò il Lupo.
– Silenzio – disse il mio padrone. – Guardate laggiù.
A una ventina di metri, dietro un cespuglio la luce della luna rischiarava un movimento ritmico.   
– Dove? – disse il Boxer.
– Zitto!
Il movimento cessò.
– Sono due froci! – disse il Puma.
– Non fateli scappa’! – urlò il mio padrone sbattendomi contro un pino.
Sentii la scorza cedere, il profumo intenso della resina. I due ragazzi non ebbero il tempo di rivestirsi; scattarono di corsa come due conigli inseguiti da un branco di cani. Uno perse le scarpe, i piedi feriti lasciavano tracce di sangue. L’inseguimento durò poco. Accerchiati, ci guardarono, gli occhi colmi di terrore.
– Non sono neri – fece con disprezzo il Lupo.
– Non sono neri, ma sono di sicuro froci – disse il mio padrone tenendomi con le due mani.
– Che volete fare? – disse con tono spavaldo uno dei due.
– Adesso lo vedi – articolò senza nessuna espressione il mio padrone.
A quelle parole i due tentarono di nuovo la fuga. Il gruppo gli fu addosso a calci, pugni e sprangate. Quei due stronzi urlavano come galline sgozzate.
– Fermi! – ordinò il mio padrone. – Nun li vorremo ammazza’ così, senza divertimento.
Gli altri si fermarono. Uno dei due aggrediti restò faccia a terra, quasi non si muoveva più. L’altro si rialzò e tentò di scappare. Il mio padrone l’afferrò per un braccio. Il ragazzo si girò e lo guardò. Era una maschera di sangue.
– Lasciami stare – disse.
– Non ti preoccupare, bello, non ti faccio niente di male.
– Lasciami anda’ via, non dirò niente.
– Che dovresti dire, e a chi?
– Lasciami in pace, stronzo! – urlò il frocio.
Il mio padrone non si scompose, anzi, gli lasciò il braccio.
– Finitelo di spogliare – disse.
Gli altri l’accerchiarono e gli strapparono di dosso quello che restava dei vestiti. Il ragazzo urlava, scalciava, bestemmiava. Nudo, lo presentarono al Capo. Lividi su tutto il corpo, sangue che gli colava fino ai piedi. Non urlava più, non si dibatteva più. Fissava il mio padrone negli occhi. Con voce ferma disse:
– Che vuoi fare?
– Adesso lo vedi.
Il mio padrone s’abbassò e prese una manciata di terra.
– Non volevamo un frocio nero? – sorrise e rivolto verso gli altri continuò: – eccolo, l’abbiamo trovato. – Strofinò la terra su quella faccia insanguinata, il collo, il torace. Movimenti lenti, circolari. Quasi carezze. Tolse la mano e disse – Giratelo.
– Lasciamolo stare – fece il Biondo. – Ci siamo divertiti abbastanza.
Il mio padrone gli si avvicinò con passi regolari. Lo fissò negli occhi e gli sputò in faccia: – Vattene!
Il Biondo non si mosse, solo le dita tradivano una contrazione sulla barra di ferro.
– Ti spacco il cranio, vattene! – gl’urlò in faccia il mio padrone.
– Resto – disse il Biondo.
– Bene, allora sarai tu a tenerlo fermo.
Il ragazzo insanguinato iniziò a urlare tra i singhiozzi.
– Tappagli la bocca e giralo – disse calmo il mio padrone.
Il Biondo eseguì. Il ragazzo si dibatteva come un ossesso.
– Immobilizzatelo!
Gli furono addosso, lo girarono e gli divaricarono le gambe. Il mio padrone s’avvicinò. Si fermò tra le cosce di quel corpo che non la smetteva d’agitarsi, scattare, urlare. Il Biondo, seduto a terra, cercava di tappargli la bocca stringendogli a tenaglia la testa tra le ginocchia. Il mio padrone si sbottonò con una mano i jeans, con l’altra stringeva me. Tirò fuori il suo arnese e pisciò sul frocio. Poi impugnò me, la sua umile serva, e d’un sol colpo m’infilò tra le natiche di quello. Ho sentito i muscoli contrarsi, la carne lacerarsi. Sangue e merda. A due mani mi spinse con tutta la forza più su, sempre più su. Ancora strattoni, contrazioni, urla soffocate.
Poi tutto cessò.

***

Di corsa verso il mare. Le moto sulla spiaggia. Sei ragazzi nudi si tuffano di notte tra le onde. Sembra un gioco. È quasi un gioco.
Il mio padrone non m’ha dimenticata. M’ha portata nell’acqua. M’ha lavata. È uscito, m’ha lasciata sulla spiaggia, poi è tornato nel mare con gli altri. Io, bagnata d’acqua salata, restai a brillare della luce lontana delle stelle.