Canti Celtici di Renzo Montagnoli
Il Foglio (2007)
collana: Autori contemporanei poesia, 10 euro
Il ritmo dei grigi
Scalpitio di cavalli.
Colpi di zoccoli che si perdono.
Lontano.
Fra nebbie e vapori.
Svanite le eco, niente più rimane.
Solo grigi indistinti, silenzio e quella pausa dei sensi prossima alla morte.
Prossima anche alla vita.
Nuova, segreta vita.
Leggere un libro di poesie non è come leggere un romanzo.
No.
Prendere in mano un libro di poesie non è come prendere in mano un romanzo.
Niente a che vedere.
Per leggere un libro di poesie c’è bisogno di tempo. O meglio,
c’è bisogno di “rarefare” il Tempo. Trovare quel momento
magico in cui la realtà – intorno a noi, dentro di noi –
possa iniziare a sciogliersi. Fondere come neve che l’invisibile calore
della primavera trasforma in acqua.
Con lentezza, divina lentezza.
Con la stessa lentezza, dobbiamo trovare il tempo noi per sgretolare il Tempo.
Sgretolarlo. Rarefarlo. Farlo sciogliere. E, in quel luogo spazio–temporale,
tuffarsi.
Tutto, allora – se tutto è stato creato da un poeta – diventa
vero, presente. Anche un passato ormai morto, fatto rivivere su una delle materie
più fragili e sensibili che esistono: la carta. Carta che incorpora e
trattiene le tracce nere dell’inchiostro, come tatuaggi indelebili. Carta
che sa trattenere riproduzioni di foto in bianco e nero: riflessi. Riflessi
di reali paesaggi.
E se tutto intorno a noi, finanche nella nostra memoria, non fosse che un magico
e potentissimo gioco di riflessi?
Questo sembra dirsi a ogni riga, a ogni scatto il poeta–fotografo Renzo
Montagnoli.
Gioco di riflessi e d’illusioni.
Divine illusioni in cui il Tutto si fa fluido, amniotico, lontano e presente
allo stesso tempo. Quel Tempo che, inesorabilmente, ad ogni istante ci sfugge.
Le tracce nere delle parole possono render vivo un passato che ci è sfuggito
fra le dita, come la chioma bella d’una ninfa. Una ninfa che ancora ci
sorride.
Ancora e sempre.
Anche dietro quel velo di grigie trasparenze che mai riusciranno a cancellare
ciò che è stato.
L’eterna casa della realtà è il ricordo.
E se la realtà può sbiadire, i ricordi non sbiadiscono mai.
Con l’andare del tempo diventano sempre più vivi e veri.
Più veri di ciò che ci circonda.
Ciò che ci circonda è fuori di noi, i ricordi sono mescolati al
nostro sangue, alla carne. Vivono, respirano con noi.
E se, uno dei segreti dello scrivere, soprattutto scrivere poesie, fosse dar
voce alle risonanze sempre vive dei ricordi?
E se, avvicinarsi alla poesia – alla bella poesia, quella che ci riscalda
il cuore – non fosse nient’altro che il tentativo di glissarsi,
senza far rumore, in quel magico gioco di chiaroscuri e trasparenze?
Chiudo il libro di Renzo e, in caratteri bianchi su nero “Canti Celtici”
mi balza allo sguardo poi, in un’aerea, aperta prospettiva, un cielo luminoso
di bianchi, grigi, celeste e sospetti di viola mi conducono lontano.
Intanto, come per magia, ancora, distintamente sento, vivi, presenti, colpi
di zoccoli che s’allontanano e svaniscono in un agitarsi d’ombre.
Ma io so che non sono immaginari cavalli e cavalieri che s’allontanano
fra castelli di blocchi di pietra e sterminate paludi.
No.
Questo pulsare è il riecheggiare in me del ritmo dei versi di questi
“Canti Celtici” che hanno saputo dar vita, battito, cardiaco a ciò
che non è più. Ciò che mai più sarà.
Eppure resta.