Giovanni Buzi, Viso (1985)

 

Giovanni Buzi: L'unica donna

È bastato uno sguardo. Al semaforo. Lei in una familiare verde metallizzato. Io in una decappottabile nera. Lei approfittò dello stop per darsi un’occhiata allo specchietto retrovisore. Io per rimettere un filo di rossetto rosa perla.
Uno sguardo. Non di più.
Scattò il verde, e scattò lei con un colpo d’acceleratore. Come volesse fuggirmi. Troppo tardi. Quella bionda dall’aria casa e chiesa, col petto che ansimava sotto ad un brillante crocifisso di cristalli, non me la sarei lasciata scappare. Per niente al mondo.
Il semaforo seguente era al verde.
Continuai a tallonarla. Sì, di tanto in tanto sbirciava dallo specchietto retrovisore, la santarellina... Un crampo allo stomaco; dopo 48 anni comincio a conoscere il mio corpo, so quando ha fame. Fame di donna. Non una donna qualsiasi, ma quel viso, quel seno. Ogn’altra sarebbe stata veleno.
Era lei l’unica donna.
Una stretta fra le cosce; era il mio sesso che la cercava. Tolsi una mano dal volante, la feci scendere, giù fino allo string. La seta frusciò. Il mio sesso depilato si contraeva come un voglioso anemone di mare. Accarezzai la carne già umida, impaziente. La punta della lingua sul dito: carne, sale e mare...
Semaforo arancione. Lei rallentò, io, le due mani sul volante, insaccai il piede sull’acceleratore e Scrakch!

***

– È tutta colpa mia... Come sta?
Nel verde limpido dei suoi occhi volò un’ombra.
– Cos’ha fatto... ma è pazza? M’è venuta addosso di proposito, l’ho vista!
– Si calmi, signorina. Lo riconosco, è colpa mia. Ma come può pensare che l’abbia fatto di proposito? Mi sono distratta, ho perso il controllo. Non si preoccupi, mi prendo l’intera responsabilità. Lei, piuttosto, come sta?
– Io? – la bionda come ricordasse solo in quel momento d’avere un corpo. Credo di star bene, voglio dire, di non essere ferita.
Aprì la portiera e uscì: restai senza fiato! Un fascio di capelli biondi brillò al sole. I fianchi d’una Venere. Mi buttò contro i suoi occhi verdi, profondi e freddi come due laghi di montagna.
Credetti d’affogare.
Cosa m’ha trattenuto dal prenderla tra le braccia e accarezzarle la nuca? Avrebbe poggiato la testa tra il mio collo e il seno, proprio all’altezza del cuore e come una bambina si sarebbe abbandonata. Ne sono sicura, era quello che voleva. Ma volere è una cosa, riconoscere che si vuole, un’altra. Il verde alpino delle sue pupille raggelò.
– Allora, è contenta di quello che ha combinato? Guardi come m’ha conciato la macchina!
– Non si preoccupi, signorina...
– E la smetta di chiamarmi signorina! Sono una signora, la signora Peruzzi, per la precisione!
Mi mise sotto al naso il dito con la fede nuziale. Che unghie curate, la santarellina... Lo smalto era sì d’un rosa scialbo, ma che lavoro di polso e di lima! Sicuro, ci passava le ore. Ciò significava che: 1) aveva tempo a disposizione, 2) probabilmente ancora nessun figlio, 3) teneva molto alla sua persona, anche se all’apparenza sembrava una mela bio del Trentino: florida, sana, senza pesticidi. Non so leggere le linee della mano, ma osservando le unghie so quasi dire vita, morte e miracoli d’una persona, diciamo d’una bella donna, le sole persone che veramente m’interessano. Le unghie mi parlano attraverso la forma, la lunghezza, la cura, il colore dello smalto; le sue mi stavano dicendo che...
– Insomma, perché mi fissa così la mano, non ci crede che sono sposata? 
– Scusi, non è il momento, lo so, ma stavo ammirando la bella tonalità di colore del suo smalto.
– Come? – disse abbassando istintivamente lo sguardo verso le unghie. – Che avrebbe di tanto strano il colore del mio smalto?
– Non ho detto strano, ho detto la bella tonalità.
Alzò il viso. Restò a fissarmi e il verde dei suoi occhi si fece smeraldo.

***

La mia auto, pur malridotta, funzionava. Inserii il solito cd di Alan Sorrenti e selezionai “Tu sei l’unica donna per me”. Presi a cantare: “Dammi il tuo amore, non chiedermi niente, dimmi che hai bisogno di me, tu sei sempre mia anche quando via, tu sei l’unica donna per me...”. Viaggiare, vagheggiare, vaneggiare... col corpo e con la mente. Tutto mi sembrava possibile. Tutto sembra possibile quando si è innamorati. E io lo ero. Innamorata cotta. Di già? Scoppiai a ridere e premendo l’acceleratore corsi con la macchina mezza scassata verso il mare cantando: “Dammi il tuo amore, non chiedermi niente, dimmi che hai bisogno di me, tu sei sempre mia anche quando via, tu sei l’unica donna per me...”.
Non riuscivo a scacciare l’immagine di lei dalla mente. Il viso acqua e sapone, le labbra carnose senza un filo di rossetto, le ciglia appena ritoccate di rimmel, i capelli biondi mossi e sparsi sulle spalle. Soprattutto, non riuscivo a cancellare l’immagine dei suoi seni polposi, trattenuti a stento da quel reggiseno bianco che s’indovinava sotto alla leggera maglia color pesca. In mezzo al petto, come un vaderetrosatana, brillava il crocifisso di cristallo. Rischiai un secondo incidente. Svoltai brusca il volante e d’un pelo evitai un autobus!

***

La mia assicurazione pagò fino all’ultimo centesimo.
– Nessun problema, signora Anici. Sono stati molto gentili e stranamente puntuali. Sa, certe compagnie d’assicurazioni...
– Ne sono felice, signora Peruzzi, ma la vera fortuna è che lei non abbia avuto un solo graffio!
– Non ne parliamo più – rispose con voce molto offuscata.
– Come dice? Non sento.
– Sto in macchina, in un tunnel.
– Mi scusi, la richiamo più tardi; non vorrei causarle un altro incidente! 

***

Da quel primo incontro–scontro, non avevo cessato di pensare a lei. Mi stendevo sul divano, programmavo il cd in modo da far ripetere all’infinito la mia canzone, quella che consideravo già la nostra canzone: “Dammi il tuo amore, non chiedermi niente, dimmi che hai bisogno di me, tu sei sempre mia anche quando via, tu sei l’unica donna per me...”. Con movimenti lenti, un po’ flou rivedevo il suo viso, capelli, la schiena, i fianchi... soprattutto i seni che immaginavo sodi, caldi, profumati. Doveva avere i capezzoli rosati, teneri come boccioli, dolci come licis. Sentivo tra i denti la loro consistenza di fragola matura. Li mordicchiavo e, poco a poco, li sentivo rilasciare il loro succo d’uva matura, profumata. Tra lingua e palato restava un retrogusto di mandorla, cianuro e miele.
Trillo di campanello!
Sollevai di scatto le palpebre e tolsi le due dita dalla vagina, che rifiutò di richiudere subito le labbra e restò, come un pesce fuor d’acqua, a boccheggiare. Era lei; l’aspettavo. Aveva un mazzo di fiori in mano.
– Rose bianche! Come sa che sono le mie preferite?
– Non lo sapevo... Che incanto! – esclamò guardandosi intorno.
– Una soffitta, in fin dei conti.
– Chiama questo superattico una soffitta? – disse fissandomi coll’entusiasmo d’una bambina.
– Quanti lavori col mio primo marito! Un avvocato; m’ha lasciata per la segretaria. Poco originale, ma è andata così. Almeno ho tenuto l’appartamento e qualche soldino. Dal mio secondo marito ho divorziato dopo due anni.
– Mi spiace.
– Non è il caso. Un porco, allungava le mani perfino con le bambine. Poi Federico, un amore di ragazzo: 25 anni, gentile, campioncino di nuoto, 1 metro e 80, occhi azzurri, due spalle così: è fuggito con un ballerino. Poca fortuna con gli uomini.
– Una bella donna come lei!
– Orrenda e storpia non lo sono mai stata, ma alla mia età...
– Cosa dice?
– Signora Peruzzi, è un angelo! Vogliamo darci del tu? Chiara.
– Anita, come... Da quando sono alta così, tutti mi chiedono come sta Giuseppe Garibaldi.
– Come sta?
Scoppiammo a ridere.
– Tuomarito come si chiama?
– Annibale.
– Preferisco Giuseppe.
– Martedì calcio, mercoledì piscina, giovedì palestra. Una montagna di muscoli.
– Un tè?
– Volentieri.
La servii sedendomi sul divano accanto a lei. Sembrava non vedermi; lo sguardo concentrato su una maschera di terracotta, una faccia di donna bloccata tra il riso e la smorfia.
– È un’antefissa di tempio etrusco, una Menade. L’ho comprata a Tarquinia. Ho un casolare da quelle parti.
Fresco, sentii il suo profumo all’albicocca. Respirai. Senza guardarla, respirai. Nell’aria: “...dammi il tuo amore, non chiedermi niente, dimmi che hai bisogno di me...”.
La mia mano s’alzò leggera, esitante come farfalla tra spine di cactus, s’avventurò verso i suoi capelli. “Dammi il tuo amore... non chiedermi niente...”. La sfiorai. Non si mosse. L’accarezzai. Dolce la baciai. Ad occhi chiusi, respiravo il suo respiro. Le mie mani sul suo collo, il petto velluto, i capezzoli e giù, ancor più giù tra vortici di seta e d’ali. Annibale non doveva perder tanto tempo a farfalleggiare con le dita d’atleta. M’accorsi presto che la santarellina conosceva ogni parola meno una: basta.

***

– Com’è diverso! – sospirò Anita i capelli biondi sparsi sul cuscino, lo sguardo immerso nel bianco latte del soffitto.
Tenendole la mano:
– In generale gli uomini: una serie più o meno scomposta di va’ e vieni, un urlo più di rabbia che d’amore e ci lasciano ad occhi aperti a sognare. Il tempo di posargli una mano sul capo e dormono.

***

Ci vedemmo quasi tutti i giorni. Lei inventata mille stratagemmi per vederci, e vederci voleva dire stringerci, leccarci, divorarci come bestie, lei ancor più felice di me, stordita d’aver scoperto l’amore–sesso tra donne. Ma lasciare il marito non se la sentiva. Doveva riflettere. Le cose per noi donne non sono mai semplici. I nostri circuiti non hanno niente a che vedere con quelli decisamente più semplificati degli uomini. È la nostra forza, è la nostra debolezza. E io non volevo sbagliarmi, dovevo esser sicura che lei m’amasse. Volevo una donna per sempre, per tutta la vita. Io volevo una donna per tutta la vita. Lei, un diversivo.

***

– Vieni a vivere con me – le dissi un giorno.
Anita senza guardarmi,
– Non posso.
– Ti prego, lascia tuo marito.
– Non voglio.
– Non capisci che ormai m’è impossibile vivere senza di te?
Mi gettò contro i suoi limpidi occhi verdi:
– Non ti sta bene se le cose restano così?
– Così: io ad aspettare, tu con tuo marito. Io a contare le ore, tu...
– Non essere melodrammatica!
Piansi. Amaramente. Io, sempre più esigente, noiosa, egoista. Lei si sentiva soffocare.
– Ti posso almeno chiedere di restare per un’intera notte con me? – la supplicai.
– Sai che è impossibile.
– Non è impossibile, è difficile.
Riuscì a inventare una storia al marito.
– E poi dici che non ti amo? – mi sorrideva mentre ci dirigevamo in macchina verso il casolare.
Mi concesse anche di sottoporsi a una delle mie tante fantasie erotiche. La divertivano. La legai nuda su un tavolo, dal soffitto feci oscillare un lampadario con candele accese. Gocce di cera caddero sul pavimento, il tavolo, il suo corpo. Gridava eccitata; Annibale non doveva perder tanto tempo neanche con la cera. Una goccia cadde accanto alla sua guancia: sfrischh  e divorò il legno.
– Cos’è? – disse lei con una punta d’inquietudine.
Avevo manipolato il lampadario, l’interno era colmo d’acido che fuoriusciva da sottilissime fenditure.
– Le mie lacrime non erano cera fusa, ma vetriolo – risposi.
Una goccia le colpì la gamba. Anita lanciò un urlo:
– Sei pazza! Slegami!
Inserii un cd nel mini stereo, le rivolsi un ultimo sguardo e uscii. La campagna si stendeva calma sotto la luna. Nel canto dei grilli, m’arrivavano attutite le sue urla miste alle parole della nostra canzone:
“Dammi il tuo amore, non chiedermi niente, dimmi che hai bisogno di me, tu sei sempre mia anche quando via, tu sei l’unica donna per me...”.

 

(Pubblicato nel volume "Racconti diversi - Premio letterario Daniele Boccardi, Massa Maritima, 2005)