Giovanni Buzi, Frammento n. 784 (2002)

Giovanni Buzi: Bianca Venezia, rosse le rose

Nella foschia, fiocchi leggeri tracciano lente spirali, tranquilli mulinelli. Braccia di fantasmi, tentacoli di gigantesche, lattiginose meduse. Nevica su Venezia. Sulle cupole dorate, sui canali color acciaio. Laggiù verso la laguna aperta, cielo e mare non esistono più, solo una banda d’argento opaco. Ti volti nel letto. Mi abbracci. Stringo il tuo corpo. Le lenzuola sono tiepide, profumano di noi. T’amo. Chi, cosa potrà mai separarci? Un sorriso m’affiora alle labbra. Affondo le narici tra il tuo collo e l’orecchio. Respiro. Come potrei far a meno del tuo odore? Cieca, saprei riconoscerti tra mille. Sento la tua mano scendere piano giù per la schiena. I polpastrelli sfiorare appena la pelle. Sento l’altra tua mano attardarsi sui capezzoli, lungo il ventre, ancora più giù.
– No... – dico sottovoce e mi scosto.
– Perché? – rispondi con gli occhi chiusi.
– Perché... – e mi sollevo a sedere nel letto. Guarda, dico con lo sguardo perso fuori dalla finestra, nevica! Siamo a Venezia, è il giorno di San Valentino e c’è la neve...
– Vieni qui – dice Edoardo cercandomi con la mano.
– Alziamoci, ti prego. Ho voglia di camminare, vedere, respirare.

***

Lo conoscevo da più d’un anno. 52 anni, brizzolato, ottima posizione. È un noto avvocato di Roma, la nostra città. Cosa m’ha colpito di lui? Non saprei dirlo con precisione. O forse sì, il suo magnetismo. Quel giorno a vederlo correre per il parco con indosso una banale tuta di cotone grigio, non avrei mai immaginato che fosse ricco. E ora che lo so, non me ne importa più di tanto. Non ero andata all’università quella mattina. Non mi andava. Mi ero lasciata il giorno prima con Giulio e mi ero ripromessa di non rivolgere neanche più lo sguardo a un ragazzo della mia età.
– Basta con l’uva acerba, avevo detto a Marisa, se non sentono la morte non li voglio.
– Che dici? – mi aveva risposto la mia migliore amica guardandomi da sotto le ciglia.
– Quello che hai sentito. Da oggi, li voglio ammuffiti, cadaverici, con un piede nella tomba.
Marisa mi lanciò una strana occhiata, sistemò una ciocca di capelli dietro all’orecchio e rispose:
– Fa un po’ come ti pare. E dove avresti intenzione d’andarla a cercare questa mummia, nel Museo del Cairo?
Invece, ero andata a Villa Borghese. L’erba verde, l’aria frizzante. Mi ero seduta su una panchina. Avevo guardato per un po’ il laghetto. Una scia grigiastra mi passò davanti e cancellò l’acqua. Ancora due metri e si accasciò.
– Signore – dissi alzandomi. – Sta bene? Ha avuto un crampo?
Alzò il capo e due pupille nere mi fissarono.
– Sì, un crampo al cuore – sentii per la prima volta la sua voce.
Rimasi di stucco, là in piedi a guardarlo.
Evidentemente era sposato.
– Due figli. Un aspirante pirata di 11 anni e un’aspirante modella di 14. Immagini se hanno bisogno di me.
– Sua moglie... – replicai debolmente.
Fece una pausa. Mi fissò negli occhi e scuotendo lento il capo:
– Neanche lei.
Sì, credo d’essermi innamorata subito. Non all’istante, dopo dieci minuti che mi parlava. Che senso ha poi parlare di tempo, quando sto con lui non so mai che ore sono. “Perché guardi così spesso l’orologio?, m’ha chiesto un giorno. T’aspetta qualcuno?”. Sorrisi e non risposi. Non riuscivo a staccare i miei dai suoi occhi, da quella luce che emanavano. “Non vorrai mica ipnotizzarmi?”, gli dissi una volta. “Non ce n’è bisogno”, rispose. Era vero.
Voleva divorziare. Sicuro, questa volta l’avrebbe fatto. Non sopportava più sua moglie, anzi, quella donna gl’era completamente indifferente; non sopportava più la situazione. Da anni ognuno faceva la sua vita. Lui, in particolare, aveva avuto altre storie. Niente di veramente importante, fino ad ora. Fu a sentire quel  fino ad ora che una sera sul divano di casa mia, bicchiere in mano, ho sentito sciogliersi un nodo stretto in fondo al ventre. Il mio respiro si è fatto leggero, ogni muscolo burro. Ho accavallato le gambe. La seta delle calze ha rimandato un fruscio lento, sottile. D’ali vibranti. Da allora mi prende quando vuole, dove vuole, come vuole. Io non dico mai no, mai basta. Sono un giocattolo nelle sue mani. Lui lo sa. Anch’io.
– Mi piacerebbe ucciderti – mi ha sussurrato un giorno tra i capelli.
– Che dici?!... – feci abbandonando il capo sul suo petto.
– Ucciderti, ammazzarti – continuò a sussurrare con voce calda. – Vederti morire dissanguata sotto ai miei occhi. Essere sicuro che l’ultimo tuo sguardo sarà per me.
Alzai il viso. Lo fissai un attimo seria. D’un gesto gli spettinai i capelli sale e pepe e dissi:
– Com’è simpatico il mio Jack lo Squartatore!
– No, squartarti no. Solo vedere spegnersi la vita dalle guance, dai seni, da tutto il tuo corpo rigato di sangue.
– Sei in pieno delirio?
– Come ho fatto con le altre.
– Quali altre?
– Le mie amanti. Solo quelle che ho amato veramente.
– Va bene, sei un autentico sadico, un autentico Principe Arabo e hai sgozzato tutto il tuo amato harem. Perfetto, però adesso andiamo a cena? Ho fame.
Mi prese sottobraccio e sfiorandomi appena col gomito il seno aggiunse,
– Andiamo, ho fame anch’io.

***


I rami dei pochi alberi sono coralli morti, pietrificati. Il cielo e il mare due placche di giada malata, d’un pallido grigioverde. Le statue cadaveri bianchi dagli occhi infossati di nero sporcizia. Non nevica più. L’intera città è lo scheletro spolpato d’un mostro degli abissi, affiorato e decomposto in quelle acque stagnanti. Presto scesero le ombre.
– A che pensi? – mi chiese.
– A niente.
Un piccione appisolato in un angolo si scosse e s’alzò in volo. Per pochi attimi, una scia argento si riflesse sulla superficie scura del canale, come la traccia d’una lama sollevata. Faceva molto freddo. L’acqua raggelava nei canali.
– Ti va di mangiare pesce? – mi disse.
– Lo sai che l’adoro.
– È per questo che te lo chiedo.
– Edoardo... – abbracciandolo di slancio, – quanto t’amo, quanto t’amo! Per te, farei qualsiasi cosa!
Mi tenne stretta. Mi accarezzò i capelli. Avvicinandosi ad un orecchio sussurrò:
– Sta attenta alle parole.
– Perché?...
– Dici la verità?
– Non ci credi?
– Per me, faresti veramente qualsiasi cosa?
Sollevai lo sguardo. Incontrai i suoi occhi neri.
– Qualsiasi.

***


Il ristorante era molto chic. Lampade ovattate, tessuto color crema alle pareti. Tappeti orientali su cotto antico. In cornici intagliate e dorate, quadri di nature morte. Su sfondi scuri, coppe colme d’un liquido ambrato, tulipani multicolori, rose rosse dalle foglie verde scuro e spine appuntite, frutti sbucciati. Ostriche dalle carni molli, viscose, pesci a lucenti scaglie grigio blu, una sfumatura rosso sangue sui ventri, attorno alle bocche contratte in un spasmo, come cercassero ancora il mare. Appena percepibile, una musica classica piano e violino. In perfetto grembiule bianco si diresse verso di noi una cameriera.
– Buonasera, signori – disse rivolgendo uno sguardo di sottecchi a Edoardo, con un sorriso e maniere professionali che dissimulavano male una certa familiarità. – Il vostro tavolo è pronto – continuò gettandomi una leggera occhiata obliqua. Prego, terminò stendendo un braccio con un sospetto d’inchino. Edoardo le diede sciarpa e cappotto. Feci lo stesso con la pelliccia di volpe bianca. Il suo regalo di compleanno.
– Scusatemi, torno subito – e la cameriera sparì con le nostre cose dietro una tenda.
Edoardo fece scorrere uno sguardo panoramico nella sala.
– Seguitemi, prego – riapparse la cameriera facendoci strada con un ancheggiare contenuto.
Giungemmo ad una tavola tonda, coperta da una tovaglia immacolata. Al centro, un bouquet di roselline essiccate. Un tovagliolo bianco, artisticamente ripiegato in forma d’orchidea, era posto tra i bicchieri di cristallo e le posate d’argento. Mi accorsi dello sguardo della cameriera, distaccato e attento, come fossi un ostacolo fra lei e un oggetto lontano. Con un elegante movimento, si curvò e con un fiammifero accese due candele dorate; un sole e una luna galleggianti in una coppa d’acqua e petali di rose rosse. Si rialzò e con un accenno di sorriso disse:
– Torno subito, vado a prendere il menù.
Osservai Edoardo; da tutta la sua persona emanava un’espressione d’olimpico autocontrollo. In quel momento sì, avrebbe potuto chiedermi qualsiasi cosa, anche...
– Ecco il menù, interruppe i miei pensieri la cameriera.
– Cosa prendi, cara? – disse Edoardo.
– Quello che prendi tu.
Sollevò appena le sopracciglia, mi osservò un momento e accennò ad un sorriso.
– Due dozzine d’ostriche e spiedini di coda di rospo, per favore. Va bene per te, cara?
Feci segno di sì, senza riuscire a staccare lo sguardo dal volto, le sue spalle, il petto, le mani. Altre coppie stavano come noi occhi negli occhi. In un attimo di lucidità, abbassai le palpebre e dissi:
– Siamo proprio ridicoli.
– Perché dici così?
– Tutte le persone innamorate mi sembrano ridicole.
Non replicò; aveva l’arte dei silenzi. Arrivarono le ostriche. La cameriera ci servì e con un leggero inchino si dileguò dicendo:
– Buon appetito, signori.
Restai a guardare la coppa. Mi piacevano molto le ostriche, ma in quel momento solo a vederle provai un improvviso disgusto. Distese sulla loro bara di ghiaccio, mi fecero pensare a mummie in decomposizione prive delle bende. Le carni molli, viscose si agitavano in fremiti microscopici. Ho spremuto uno spicchio di limone su una di esse. Istantaneamente, un’onda di vibrazioni l’ha contratta in spasimi di un dolore inimmaginabile. Si raggrinzì richiamando verso il centro le parti più fini e sensibili. Provando nausea, distolsi lo sguardo dallo spettacolo osceno di quella sofferenza in miniatura.
– Non ti sembrano abbastanza fresche? – mi chiese Edoardo dopo averne inghiottite due.
– Sì, ma...
– Ma...
– Scusa, ho l’impressione di non sentirmi bene.
– Così all’improvviso, cos’hai?
– Non lo so. Non sto male, sento solo un po’ di nausea. Non mi farà male saltare una cena.
– È un peccato. Vuoi che usciamo?
– No, assolutamente. Mangia, ti prego. Ho solo voglia d’uno yogurt.
Lo chiedemmo alla cameriera.
– Non mangia, signora? C’è qualcosa che non va?
– È tutto delizioso, ma ho un po’ male allo stomaco. Niente di grave.
– Come desidera, le porto lo yogurt – rispose mentre si massaggiava con discrezione un polso. Sotto al bracciale d’oro mi accorsi d’un segno, come il livido lasciato da una corda. Non prende neanche il dessert? – continuò. Abbiamo una buonissima frusta al cioccolato e una squisita dama in rosso.
– Grazie, veramente non ho fame.
Uscimmo. Un vento glaciale mi colpì in pieno viso. Mai avevo visto così bianca Venezia; coperta di neve, sotto la luna piena risplendeva come un ossario.
– Prendiamo una gondola – disse Edoardo.
– Dove andiamo?
– Vedrai... è una sorpresa.
– Una sorpresa?
Lasciammo il Canal Grande e scivolammo in silenzio in un canale laterale. Svoltammo ancora. Poco dopo mi sentivo completamente persa in un labirinto d’acqua e pietre. I rintocchi lontani d’una campana riecheggiarono sulle facciate decrepite, per le piazzette deserte, i ponti. Sciabordare d’acqua scura e la gondola si fermò contro un palazzo. La facciata non era molto grande, ma decorata da tre belle finestre gotiche. Edoardo mi prese per mano e mi ritrovai sotto un portico sostenuto da due pilastri squadrati.
– Da chi andiamo?
– Amici. Danno una festa.
– E non m’hai detto niente?
– Che sorpresa sarebbe stata?
– Mi sarei vestita...
– Sei elegantissima, e poi il vestito non conta – disse abbracciandomi.
Sentii le sue mani stringermi, cercarmi, salire verso il seno. Si posarono attorno al collo. Le dita esploravano, lievi lo massaggiavano. Sentii i pollici indugiare sotto la gola.
– Che splendida pelle hai... Bianca, vellutata.
Mi baciò. Un bacio lungo, saporito, da belva che lecca la preda ancora calda, ancora viva. Tra le mie gambe sentii, netta, la sua erezione.
– Non vorrai mica... – dissi liberando la mia bocca dalla sua.
– Andiamo, se no ti scopo qui – e tenendomi per mano fece pochi passi sotto al portico.
Per tre volte spinse su una vecchia porta un battente di bronzo. Raffigurava uno strano mostro marino, una sirena con ali di pipistrello. Rivolsi uno sguardo al cielo. La foschia si alzava densa dalla laguna, una nuvola velò la luna e il canale sembrò una voragine oscura. Per un momento ebbi paura che tutto scomparisse; le case, l’acqua, il cielo stesso. La porta si aprì. Una distinta signora, capelli neri raccolti a chignon, lungo abito nero scollato. Nell’incavo tra i seni, bianchi e formosi, un medaglione d’oro a forma di teschio con due rubini al posto degli occhi.
– Buonasera Edoardo, t’aspettavamo – disse la signora con tono da perfetta padrona di casa.
– Conosci la contessa Maria Anita Santacroce? – mi chiese Edoardo.
– Non ho il piacere, risposi.
Dalla facciata non si sarebbe mai immaginata così grande la sala in cui la contessa ci condusse. Un ampio spazio rettangolare con addossate alle pareti colonne che proseguivano e si intrecciavano in nervature sul soffitto a volta gotica. La sala era completamente vuota, tranne per un piccolo tavolo con un mazzo di rose rosse in un vaso di cristallo e sette seggiole addossate ad una parete. Al di sopra campeggiava un grande arazzo quasi del tutto sbiadito. Si indovinavano chiazze di corpi in movimento, cavalli, resti d’alberi e cielo.
– Mi dia la pelliccia, la prego – disse la contessa.
Uniche fonti luminose, un grande caminetto di pietra in cui ardeva un bel fuoco e quattro torce che terminavano con un’ampolla di fiamme di vetro. All’interno si accendevano ondate d’un gas di colore verde blu.
– Che posto è questo?, chiesi a Edoardo come la contessa si fu allontanata.
– Maria Anita è una persona molto speciale.
– Mi avevi parlato d’una festa...
– Vedrai, la festa ci sarà.
Tornò la contessa. Che età poteva avere: 30, 40, 50 anni? Non avrei saputo dirlo. Il viso d’una perfetta pelle chiara, appena truccati gli occhi, rosa le labbra. Il corpo asciutto, quasi levigato. Il vestito di seta nera la fasciava mettendo in evidenza il bel seno. Nessun gioiello, tranne il teschio d’oro e rubini. Era tornata con una sorta di scettro grigio scuro. Lo tenne per qualche secondo in mano, quasi l’accarezzasse, poi lo passò a Edoardo. Non riuscivo a capire cosa fosse. Perché tanti misteri? Edoardo, come avesse letto i miei pensieri, mi diede lo scettro in mano e con un tono di voce assolutamente asettico disse: 
– Spogliati e metti tutto qua dentro.
Guardai l’oggetto; era un rotolo di sacchi di plastica per l’immondizia.
Non sapevo se ridere o chiedere spiegazioni. Rimasi in silenzio con gli occhi fissi su Edoardo. La contessa mi rivolse lo sguardo disegnando sulle labbra rosa pallido un aristocratico sorriso.
– Scusa un momento – disse Edoardo mentre spariva dietro una porta. Quando torno voglio trovarti nuda.
Restai col rotolo di sacchi in mano.
– La disturba così tanto? – mi chiese gentile la contessa.
Ero rimasta a fissare la porta richiusa sulle spalle d’Edoardo, diressi lo sguardo sulla donna.
– Che gioco è questo? – dissi.
– Un bel gioco, vedrà.
Stavo sul punto di chiedere la mia pelliccia, quando Edoardo tornò. Scoppiai a ridere,
– Come ti sei vestito; è carnevale?
Pantaloni di pelle nera attillati, aperti a triangolo sullo slip di cuoio nero con chiusura lampo. Sul torso nudo due cinture ad x con borchie e punte metalliche. Frusta in mano e cappello con visiera, anch’esso di pelle nera.
– Sei ancora vestita? – disse facendo schioccare a terra la frusta.  
– Edoardo, scherzi vero?
– Non hai detto che per me avresti fatto qualsiasi cosa?
– Sì, ma...
– Non ci sono ma. Ti ho già detto di stare attenta alle parole. O ti spogli o esci.
– Edoardo...
– Senti cara, se non hai voglia, puoi tornare in albergo.
Io in albergo, e tu?
– Io rimango qui. Tu fa quello che ti pare.
Restai col sacco di plastica in mano non sapendo cosa fare. La contessa mi guardava assente, come se tutta quella faccenda non la riguardasse. Poi, vedendo che non mi muovevo, fece un passo verso di me e disse:
– Resti con noi, signorina.
È tutto uno scherzo, pensai mentre cercavo di sorridere alla nobildonna che, a ben osservare, doveva avere molti più anni di quello che sembrava. Sul trucco vidi una sottile ma netta ragnatela di rughe.
– Che gioco è? – chiesi.
– È un gioco, come lei dice. Che importanza sapere di quale genere. Non piacciono i giochi a lei?
Non sapevo che ribattere, mi aveva preso alla sprovvista. Col suo sorriso enigmatico stampato sulle labbra accennò appena al sacco di plastica. Decisi d’accettare la sfida, non volevo darla vinta a quella donna di classe e, soprattutto, non volevo perdere quello che consideravo il mio uomo. Con gesti precisi, né affrettati né esitanti, mi spogliai completamente e misi tutto in un sacco di plastica. Togliendo il reggiseno, mi accorsi d’un lampo voglioso negli occhi della contessa.
– Cosa ci devo fare con questo? – dissi mostrando il sacco di plastica.
– Buttalo a terra – rispose Edoardo avvicinandosi.
Mi guardò con occhi vuoti d’ogni espressione. Allungò il braccio e mi passò la frusta in mezzo alle gambe. Non mi spostai. Salì ancora. La sentii contro il mio sesso. La contessa riuscì a contenere un mugolio di piacere. Si toccò il seno, lo palpeggiò e finalmente lo espose facendolo fuoriuscire dall’abito nero. Le due mammelle erano polpose, i capezzoli macchie color caffè con punte turgide d’un rosso indecente, quasi da mollusco. Mi lanciò uno sguardo languido e disse:
– Se le merita tutte – e voltate le spalle, si diresse verso il vaso con le rose.
Prese l’intero mazzo, dovevano essere più di venti. Me le porse. Le presi. Le spine erano aguzze come aghi, le foglie taglienti più di coltelli. Erano fiori finti! I petali di seta d’un rosso scarlatto. In quel momento entrarono nella sala, l’una in fila all’altra, sei persone. Lungo abito nero e incappucciate. Si sedettero sulle seggiole contro la parete. Edoardo tolse la frusta dalle mie gambe, prese il mazzo delle false rose e lo diede alla contessa. Prese poi una fascia bianca da una tasca dei pantaloni e fece il gesto d’imbavagliarmi. Gli bloccai il polso.
– Che vuoi fare? – guardandolo negli occhi.
– Se vuoi, vattene – mi rispose senza nessuna emozione.
Restai.
Mi imbavagliò e, persa la parola, ebbi l’impressione d’esser morta. D’improvviso, si propagò nell’aria una musica mai udita. Al ritmo lento di tamburi, si udì un ululato debole, stridente, prolungato. Tra il metallico e l’umanoide. Scompariva e tornava con la nettezza d’un grido blu. S’affievoliva e riappariva in un movimento ondulante di serpente di mare.
Quello che successe poi, lo ricordo appena...

***


Anche la contessa, rose rosse in grembo, si sedette. Tutte le seggiole furono occupate. Edoardo prese per mano Grazia e la condusse al centro della sala. Fece un cenno in direzione delle persone incappucciate. Una d’esse si alzò e girò una piccola manovella. Dal soffitto scese una corda. Edoardo l’afferrò. Legò alle caviglie Grazia. Gli occhi dell’uomo e della ragazza non avevano più espressione. Perché quella luce, come potevano quelle pupille comunicare al di là d’ogni segno visibile, decifrabile? Testa in giù, il corpo fu sollevato. I capelli quasi toccavano terra. La contessa si alzò e diede le rose a Edoardo. Questo lasciò a terra la frusta e le prese. D’un gesto violento, fustigò il corpo nudo che si incurvò. Per qualche istante non fu che un rigido tirarsi di muscoli e tendini. Il sangue iniziò a scorrere lieve. Ancora un colpo! Alla schiena, questa volta. Braccia annasparono nell’aria, come il tentativo d’un volo. Un’altra frustata di petali e spine! Un grido soffocato e le braccia si sollevarono verso il petto che dava latte color del sangue, color della vita. Edoardo prese un’altra benda bianca e legò alla ragazza le braccia dietro alla schiena. I colpi continuarono. Uno dopo l’altro, uno sull’altro. Grazia cercava di non gridare. Per dire cosa? Teneva gli occhi chiusi. Perché guardare? Perché guardare ancora? Cosa, chi? Le rose lacerarono il corpo della donna che infine, esausta, s’abbandonò. Anche i movimenti della corda, poco a poco, si spensero. Fu in quel preciso momento che Grazia aprì gli occhi e, per pochi istanti, rivolse ancora uno sguardo a Edoardo.
Quando l’alba si levò, mai sembrarono così bianca Venezia, così rosse le rose.

"Bianca Venezia, rosse le rose" è stato pubblicato nella raccolta "Fluorescenze", Edizioni Il Filo, 2004.