AGNESE, Tabula Fati, 2005

Questo romanzo è dedicato ad "Agnese", mia madre.

Le varie vicende, come già per "Il Giardino dei Principi" (Massari, 2000), si svolgono a Vignanello, mio paese natale in provincia di Viterbo.

Due foto d'Agnese con me, la prima del 1962, dell'anno dopo la seconda.

Questo l'inizio del primo capitolo:

I. Il veliero

Perché sorridi? Perché sorridi sempre su tutte queste foto?
Rettangoli di carta ingialliti, fragili fra le dita. Profumati dell’odore che solo il tempo sa lasciare. Una pellicola traslucida protegge la superficie. Agli angoli tende a scollarsi. Leggera, iridescente. Fini brandelli mi restano sulle dita. Tracce di voli, giornate assolate. Eterne primavere.
A chi sorridi? A cosa? Lo stesso sorriso - ricordo bene - che anche quella mattina avevi sulle labbra. C’eravamo alzati più presto del solito, verso le 6 e mezzo. Antonia sarebbe arrivata solo alle 8, lo sapevamo, ma né io né tu potevamo dormire. M’ero svegliato nel cuore della notte ed ero riuscito a riprender sonno solo alle prime luci dell’alba. Cosa sarebbe apparso? Cosa si sarebbe materializzato nella bottiglia? Antonia era venuta da noi la sera prima. Il telegiornale era appena finito, eravamo in pieno Carosello. In cuor mio, avevo maledetto chiunque avesse osato suonare al campanello proprio in quel momento. Quel cerchio magico formato da mia madre, mio padre, io e lo schermo del televisore si sarebbe infranto. Ancora pochi minuti e sarei dovuto andare a dormire. Era l’ultimo ritaglio di tempo per restare accanto a loro, gli ultimi istanti prima della solitudine della notte. Del Carosello, che fingevo d’aspettare ogni sera con ansia, in verità me ne importava poco. Quello che aspettavo, era quella manciata di minuti che potevo ancora dividere con i miei genitori. Una volta a letto, sarei dovuto restare sotto alle coperte in silenzio nell’attesa d’addormentarmi. A poco valeva tenere gli occhi aperti; quel filo di luce che trapelava da sotto alla porta non riusciva a dare nome alle cose. La stanza rimaneva in una penombra ovattata, più adatta a far sorgere strane presenze che conciliare il sonno. Meglio forse, il buio assoluto. In un angolo, tra l’armadio e la porta, indovinavo non so quale animale accovacciato, una specie di grosso polpo dal respiro di belva appisolata; un mio movimento, un cigolio della rete e si sarebbe svegliato. Non osavo guardare verso la tenda della portafinestra che dava sul balcone, là a pochi centimetri dalla seggiola dove mettevo i vestiti. Un gesto brusco e si sarebbe agitata come la superficie d’un lago nelle cui profondità vivono mostri terribili, pronti ad affiorare. Era meglio chiudere gli occhi e infilarsi sotto alle coperte. Le voci, i suoni del televisore m’arrivavano attutiti. Un brusio sommesso, un gorgoglio confuso, un misto continuo di fruscii e stracci di frasi. A volte, avevo l’impressione di ritrovare la voce dei miei genitori. Cercavo di captare, decifrare ogni parola, ma niente mi dava la prova che fossero proprio loro. Quelle voci venivano riassorbite dal miscuglio indistinto di suoni. Forse se n’erano andati. Avevano lasciato il televisore acceso ed erano usciti di casa. Perché? Per quanto tempo? Per sempre?... Perché non m’avevano portato con loro? Che avrei fatto da solo? Era lontano ormai il tempo che la mamma restava un po’ accanto a me, sedeva su quella seggiola dove ora gettavo i vestiti alla rinfusa e mi raccontava una favola. Favole di cui non riuscivo mai a conoscere la fine; m’addormentavo sempre prima. Di quelle storie strampalate non me ne importava niente, il solo incanto di quei boschi stregati, cavalli alati, candide principesse, fate e maghi era la voce di mia madre. Era la sua voce a dar loro corpo, esistenza. Che sarebbero diventati quegli esseri assurdi, fragili, in bilico tra la realtà e l’evanescenza senza la sua voce? Quel mondo sferico, iridescente si sarebbe infranto come una bolla di sapone. Era il respiro di mia madre a dar vita a quella sottilissima superficie traslucida, ed io m’addormentavo accompagnato da quella musica calda, preso in quel ritmo lento, spiraliforme che, al di là delle parole, ripeteva all’infinito una sola ed identica frase: “ti voglio bene”.

Foto di Vignanello (vt) mio paese natale in cui sono ambientati i romanzi: "Il Giardino dei Principi" e "Agnese". La casa, in alto sulla destra, accanto al Castello, è la casa natale di Agnese e il luogo in cui ho vissuto fino ai miei 5 anni.

1968

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