Giovanni Buzi, Carne (1986)

Giovanni Buzi: Banchetto Romano

Roma. Guardavo la vetrina d’una coltelleria.
Riflessi, vidi i suoi occhi.
Mi girai.
Di fronte: il più bel viso di ragazza che avessi mai visto! Occhi verdi, labbra ben disegnate, zigomi alti, capelli biondi tirati indietro.
– Ciao – le sorrisi.
– Ciao – rispose con accento straniero.
– Turista?
Fece segno di sì col capo. Con lo sguardo scivolai lungo il suo bel corpo fasciato da un leggero vestito celeste. Un movimento, e senza nemmeno salutarmi la bionda se ne andò. Svoltò in un vicolo e sparì.
La seguii. Intonaci screpolati, porte chiuse. Frammenti di statue esplose imprigionate su una facciata. Da un balcone scendevano chiazze di gerani rosso sangue. Dove poteva esser finita?
Veloce, dietro un angolo sgattaiolò un’ombra celeste. Le corsi dietro. Mi ritrovai in una piazza silenziosa, raccolta in un perimetro irregolare. Un raggio obliquo tagliava un austero palazzo, metà della facciata restava in una penombra violacea, l’altra s’offriva nuda come una pesca sbucciata.
Vidi la ragazza entrare nel portone. Chi poteva mai abitare là dentro? Persiane chiuse, un balcone pericolante, il palazzo sembrava completamente abbandonato. Spinsi la mano su un battente di bronzo a testa di drago. Il portone s’aprì. Entrai in un atrio dalle alte colonne. Qualche passo e mi ritrovai in un cortile porticato. Mi guardai intorno; nessuno.
Che avessi sognato?
Eppure no, avevo visto chiaramente entrare quella ragazza. Ogni rumore sembrava scomparso. Tutto taceva in un silenzio quieto. L’intonaco screpolato aveva un colore caldo, dorato, appena smorzato da un tono verdastro. In un angolo, una fontana abbandonata; una vasca di travertino ricoperta da muschi, statue di ninfe sorridenti e mutile, mostri marini con artigli di rapace e code di serpente. Da una finestra aperta vidi passare un’ombra; o non era che un soffio di vento contro le tende?
Salii di corsa i gradini di pietra levigata. Arrivai su un ballatoio. Porte aperte, stanze vuote. Odore di polvere e rancido. Mobili coperti da lenzuola bianche. Alzai un lembo; una seggiola di legno intarsiato e dorato era in via di putrefazione.
Un rumore. Mi voltai di scatto.
La ragazza bionda serpeggiò dietro una porta. Correndo, la seguii. Diedi una spallata a qualcosa, mi girai e in un fracasso terribile vidi crollare in frantumi un’enorme specchiera.
Nell’aria restarono eco confuse e brillii d’argento.
Continuai a seguire la ragazza e mi ritrovai in un grande salone. Sulle pareti affreschi sbiaditi, larghe macchie d’umidità. Tende di broccato bordò. Al centro, un tavolo tondo d’un solo blocco di pietra con infissi quattro anelli di ferro. Un lampadario con candele accese era sospeso sul tavolo.
Restai di marmo nel veder entrare sette persone incappucciate e con lunghi abiti neri che presero posto attorno al tavolo. Mi stavo chiedendo dove fossi capitato quando entrò la ragazza bionda. I capelli sciolti sulle spalle, indosso un lungo abito di velluto color viola cangiante. Nell’incavo del bel seno a metà scoperto brillava cupo un rubino. Sorrise e fece cenno d’avvicinarmi.
– Che succede, chi sono quelle persone? – le chiesi.
– Amici. Vuoi partecipare al nostro banchetto?
Restai a guardarla senza fiatare: era bellissima!
– Vieni – proseguì prendendomi per mano.
Guardandomi con i suoi occhi verdi, cominciò a spogliarmi. Ero del tutto in suo potere, la lasciai fare. I suoi occhi rilucevano stranamente, come fossero illuminati dall’interno. Le mani delicate sulla mia pelle. A momenti, sentivo i solchi leggeri che lasciavano le sue unghie. Solo allora m’accorsi che aveva lunghe unghie affilate, d’un color madreperla innaturale, di plastica dura, traslucida. M’aveva denudato il torace, ora slacciava la cintura dei jeans. Sempre fissandomi, introdusse le dita affusolate, artigliate sotto alle mutande. Cercò i peli, li accarezzò. Non riuscii a trattenere una violenta erezione. Eppure gli occhi delle sette persone incappucciate erano puntati su di me come altrettante pistole. La ragazza si chinò e, abbassandomi del tutto i jeans, me lo prese in bocca. Un’onda di piacere mi sommerse, seguita da un’altra di vergogna. Le sette persone incappucciate, sempre fissandomi, s’alzarono e s’avvicinarono. Lasciarono i cappucci neri e tolsero le tuniche. Comparvero corpi senza più età, i muscoli atrofizzati e la pelle raggrinzita come antiche pergamene. Feci un passo indietro dall’orrore! La ragazza mi guardò, sorrise e accarezzandomi con le unghie affilate le natiche, rimise il membro eretto di nuovo in bocca prendendo a succhiarlo con nuovo slancio. Quei sette scheletri coperti da pelle essiccata s’avvicinarono a noi; tre erano donne, quattro uomini. Ero combattuto in egual misura dall’orrore e dal piacere; Non sapevo cosa fare, dove guardare. Mani gelide su di me, mani di morti. La ragazza ingoiò il cazzo intero in gola e infisse le unghie nelle mie natiche: lanciai un urlo di piacere–dolore! Quelle mummie deambulanti furono su di me! Sentivo le loro dita gelide come serpenti morti, le loro lingue leccarmi, le loro gengive sdentate mordermi.
– Noo!... – urlai – lasciatemi in pace!
Cercai di fuggire. Inutilmente. La ragazza sputò fuori il mio cazzo ancora dritto e alzandosi si spogliò. Fui quasi abbagliato dalla sua bellezza, dalla sua giovinezza!
– Ti voglio – disse dolce – non puoi andare. Devi restare con noi per il nostro Banchetto Romano.
Intanto gli altri mi fecero salire a forza sul tavolo tondo. Spalle contro la pietra, mi fissarono caviglie e polsi agli anelli di ferro. Con tutta calma, ripresero posto. La ragazza s’avvicinò, mi passò lieve la mano sulla guancia e sorridendo, si sedette anch’essa. Io ero scosso da brividi, nelle vene mi circolava ghiaccio eppure il mio membro restava eretto e duro, anzi sentivo il piacere salire, salire...
I sette scheletri ripresero ad accarezzarmi, frugarmi con le dita ossute, leccarmi con le lingue raspose come giovani felini. La ragazza impugnò una forchetta e un coltello d’argento. Mi guardò. Sorrise e mentre infilzava lenta la lama in una mia guancia sentii tutto me stesso esplodere d’un getto potente, caldo, bianco. Appena udii la sua bella voce dire:
– Signori, buon appetito!

(Pubblicato nella raccolta "N.O.I.R. Quindici passi nel buio", Michele Di Salvo Editore, 2005)