Giovanni Buzi:

William Turner in Etruria (estratto)

 

Se, lasciando Roma, andiamo verso nord, verso quella direzione indicata da Gogol in cui il cielo “... non era più argenteo, ma d’ineffabile, primaverile colore lilla”, ci capiterà, forse, di scoprire perché l’aria assume quel colore d’“ineffabile” primavera. La pianura poco a poco cede ad avvallamenti lievi, a brividi ondulanti dell’orizzonte, come nell’attesa d’un evento. Avanzando, sulla sinistra s’apre una vasta luminosità, una trasparenza che rischiara il cielo. Anche senza vederlo s’indovina la presenza d’un grande lago, il lago di Bracciano, specchio di luce incastonato nel cratere d’un vulcano spento. Continuando ad avanzare, sulla destra, appena affiorato dalle profondità della terra, s’alza uno sperone compatto, una massa rocciosa isolata nelle pieghe dolci della campagna. Se i campi sono d’un verde intenso, un gruppo d’alberi s’accorpa in un’ombra brunastra, qua e là macchie di gialli, viola, sprazzi di rosso papavero, la mole del monte Soratte è là a ricordare che il colore può essere anche sfumatura indefinibile, tinte fuse in un celeste violaceo dai timbri di madreperla. Quel blocco di roccia, per un qualche incanto atmosferico, diventa leggero e, sospeso, resta nell’aria come un banco di nebbia. Un soffio di vento e potrebbe sparire. Invece, avvicinandoci prende corpo, peso. Le vibrazioni violacee scompaiono e torna ad essere pietra, vegetazione; grigi biancastri e verdi vivi. Baluardo, sentinella. Pietra miliare. Forse è posto là non a caso, con la sua improvvisa mole sembrerebbe indicare qualcosa. Ma cosa?...
Senza risposte continuiamo ad avanzare verso nord. La natura intorno a noi si trasforma. La pianura è sparita, tra le curve morbide delle colline si nascondono insidie; crepacci, burroni, gole scoscese. Il terreno cede corroso da rigagnoli d’acqua appena visibili, ma capaci nei millenni di lasciare vistose frane, profonde ferite nella terra. Enormi blocchi di tufo resistono all’erosione. Il sole, l’acqua, il vento l’hanno messi a nudo. In una vegetazione d’infiniti verdi emergono come scogli levigati d’un grigio nero quasi metallico, un tocco di blu diluito nella tessitura compatta. A volte compaiono come gigantesche cattedrali d’una materia porosa color ocra, spesso s’ergono tali a friabili speroni rosa arancio dalle sfumature carnose; in certi tramonti assumono una tinta calda, più preziosa d’un antico gioiello. Su questi bastioni naturali si sono arroccati torrioni, chiese, castelli, case raggruppate come greggi minacciate da invisibili branchi di lupi. Costruzioni strette in geometrie di terrori ancestrali. Per meglio mimetizzarsi si sono servite della stessa roccia su cui poggiano. Un velo di nebbie, uno stemperare del cielo e vi si può passare accanto scambiandole per blocchi di materia inerte, senza accorgersi che non sono escrescenze cristalline del tufo ma gusci brulicanti di vita.
È l’Alto Lazio, la Tuscia o ancora l’Etruria meridionale, quella regione che non si sa bene come denominare e che a fatica si può delimitare. Eppure è talmente semplice, una volta che la si conosce, sapere che ci si è, che si è “lì”. Sarà la potenza dei vulcani spenti non ancora completamente sopiti a darcene segno; i due maggiori crateri si sono riempiti d’acque e danno vita ai laghi di Bolsena e Vico. Il primo aperto e luminoso come un mare in miniatura, il secondo più segreto, protetto dalle penombre verdi di fitti boschi. Di solito, quasi docili specchi, riflettono ogni minima variazione del cielo; le tranquille tonalità celeste chiaro si venano di verdi, azzurri. Quando il cielo si copre, il colore delle acque si fa d’un compatto verde argento appena increspato dai riflessi d’un blu profondo, pacifico. Un muoversi lento delle nubi e la superficie risplende di chiazze luminose.
Ma chi può assicurare che un giorno quei laghi non esploderanno? Un enorme boato e potrebbero saltare in aria in colonne di vapore e fumi spinti da quel mare di fuoco su cui giacciono.
O sono forse le tracce lasciate dai suoi antichi abitanti, gli Etruschi, a dare identità alla regione? Un popolo che credeva che la vita fosse tanto potente da sfidare e vincere la morte. Non esiste morte nella concezione etrusca del mondo, solo una parete sottile che separa due mondi. Che altro sono gli affreschi rinvenuti sulle pareti delle loro tombe se non il manifestarsi, per trasparenza, dell’altro mondo; e noi che oggi guardiamo quelle superfici dipinte, in quale dei due mondi ci troviamo?
O a dare identità alla regione sarà il cielo che come un’enorme cupola di vetro copre quelle terre impigliando una luce rara, tra lo smeraldo e l’oro, i grigi perla e i violetti. Una luce che a gradazioni diverse si fonde ovunque: campi e boschi, terra e nubi, acque e rocce, ponendo i diversi elementi in un rapporto continuo d’interscambio, di metamorfosi della materia. A volte gli alberi si tingono del rosa dorato dei tufi, i monti del viola dell’uva matura, l’orizzonte può farsi della trasparenza d’una sorgente, le gole del terreno d’un impalpabile, leggero pulviscolo verde celeste. A momenti tutto fonde in una sensazione metallica, una lastra fatta d’una lega di zinco e bronzo, una leggera variazione della luce e quella lastra s’anima di rosa argentei, ruggine, rossi rame.
Che cercava Turner in quelle terre? Cosa lo spinse ad attraversarle a zig zag con carnet e matita alla mano, Turner, il signore e allo stesso tempo l’umile amante della luce?

 

 

 

 

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